Adagiarsi sul razzismo è troppo facile

“Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione tra realtà e finzione, tra vero e falso, non esiste più.” (H. Arendt, “Le origini del totalitarismo”, 1951)

Gli Appunti del Paz83

Secondo me stiamo andando alla deriva. Siamo in piena confusione e pronti ad esplodere accoccolati nella morbida e troppo comoda coperta di un disagio che a ben guardare si scopre molto più immaginario di quanto vogliamo ammettere, semplicemente perché è una fin troppo facile via di fuga. Non richiede impegno, non richiede quel minimo sforzo che serve nel fare i distinguo, nel valutare situazione per situazione, che invece sarebbero necessari per comprendere la realtà (quella vera) e le sue mille peculiarità. Ci adagiamo così in quella troppo italica abitudine di fare di tutta l’erba un fascio, e pazienza se dentro ci finisce di tutto, anche quel che non ci azzecca. Impalati come pecoroni con la bocca spalacata e la bava che scende, ascoltando il vate di turno sbraitare dal suo pulpito.

Così il ragazzo nero è a prescindere un invasore (non sorge mai il dubbio che magari sia più…

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L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è più rischioso ed esige attenzione e apprendimento: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

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il tempo della giustizia

La comunicazione politica contemporanea ha coniato, tra i tanti neologismi “ad effetto”, quello famoso di “giustizia ad orologeria”, un’espressione che da subito è diventata uno degli slogan del berlusconismo, peraltro non particolarmente azzeccato per il fine che il centrodestra con esso intendeva perseguire vale a dire una critica alla pretesa “persecuzione giudiziaria”. Anzi, quella frase semmai evoca esattamente l’opposto, cioè l’idea che la giustizia per essere tale non possa che operare con la massima ponderazione, affrontando i singoli aspetti fin nei minimi dettagli, modus operandi tipico di chi padroneggia l’arte di costruire o riparare orologi.

Tralasciando ulteriori note sulla sua origine “polemica”, il motto può tuttavia prestarsi ad una più utile riflessione, quella sul rapporto tra tempo e giustizia, “poli” la cui tensione è da tempo evidente in tema di riforma delle norme sulla prescrizione. Mal si concilia infatti il processo penale, che per sua natura mira a difendere interessi pubblici e perciò determina in itinere un notevole dispendio di risorse umane ed economiche a carico della collettività, con la possibilità che esso, una volta istruito, possa finire in nulla, o addirittura iniziare “già morto”, come da ultimo ha avuto modo di esprimersi la Cassazione riguardo al processo torinese sul caso Eternit. E così per i tanti familiari delle vittime, oltre al danno, tocca ora patire pure la beffa.

Eppure, da un punto di vista  tecnico, non si possono muovere critiche ai giudici torinesi, né tantomeno alla Suprema Corte ché, “in punta di diritto”, la sentenza risulta ineccepibile ovvero formalmente corretta; ed è bene che le procedure e le regole, finché in vigore, siano applicate e rispettate. Tuttavia, nella sostanza, essa appare (ed è) una pronuncia che, senza tema di smentita, mi sento di definire “ingiustamente giusta”. E siccome le norme le detta il legislatore, è a quest’ultimo che invece va addossata la “colpa” di questo incredibile esito; responsabilità della politica che ha radice nella negligente inerzia che essa ha dimostrato nell’intervenire a correggere le storture, stranote anche ai non “addetti ai lavori”, della raffazzonata e ripudiata dal suo stesso relatore legge “(ex) Cirielli”. Orbene, ora che è ben viva nell’opinione pubblica l’impressione di quali effetti aberranti essa sia capace, è tempo di procedere ad una sua radicale riforma (accompagnata, magari, dall’introduzione nell’ordinamento di una normativa penale ad hoc per i reati ambientali) che miri in primo luogo ad un rovesciamento della logica su cui si regge oggi l’istituto della prescrizione; calcolando la decorrenza del termine non più a favore del reo (computando il “dies a quo” dalla commissione dell’illecito) bensì a favore della parte lesa (computando il “dies a quo” dalla scoperta e relativo perseguimento del fatto di reato). E la parte lesa, in ultima analisi, è l’intera collettività perchè siamo noi tutti, più o meno direttamente, a pagare il prezzo – salato – dei disastri ecologici il cui tragico bilancio umano (talora persino “messo in conto” sub specie di accettazione dolosa del rischio) è l’esito di scelte ciniche e avare dei “soliti noti”: grandi gruppi aziendali, impersonali e multinazionali, senza legami con il territorio da cui traggono profitto. E l’Eternit, purtroppo, non è che uno degli esempi, basti solo pensare in proposito alle conseguenze dell’inquinamento prodotto dagli stabilimenti ILVA in diverse zone del Paese. Certo, la sanzione penale non “ripara” lo scempio ma può e deve senz’altro agire come deterrente per far sì che il diritto penale esplichi appieno la propria fondamentale funzione generalpreventiva, affinché simili tragedie, ancorché “silenziose”, non abbiano a ripetersi o rimangano, ancora una volta, impunite. E’ questo un risarcimento morale che dobbiamo alle migliaia di morti “in nome del profitto”, avvelenati, giorno dopo giorno, dal loro stesso lavoro, a Casale Monferrato come a Rubiera, a Taranto e nei tanti altri centri, piccoli e grandi, dove troppo a lungo chi aveva il compito di impedire che ciò si verificasse ha prima ignorato e infine negato le proprie responsabilità. Accertate in sede storica ma appunto, “cadute in prescrizione”. Colpe destinate ad un oblìo che, pur calando secondo diritto, è moralmente inaccettabile.

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Il titolo è, naturalmente, una provocazione. Un gioco di parole che trae spunto dalla traduzione – infelice – della nuova e avvincente serie made in USA appena sbarcata sulle antenne (satellitari) nostrane col titolo di “le regole del delitto perfetto”, un legal thriller che mira a svelare, al netto di una certa dose (inevitabile) di enfasi drammaturgica, alcuni meccanismi del sistema giudiziario statunitense che, soprattutto in ambito penale, appare caratterizzato, per così dire, da una placida acquiescenza verso i mezzi liberamente usati dalle parti per perseguire i propri fini. Insomma, un bel format che rieccheggia, in un diverso ambito, gli ingredienti che già fanno del magistrale “House of cards” un appassionante thriller politico. Il giudizio è, dunque, decisamente positivo e credo debba essere sottolineata la scelta di tratteggiare situazioni (realistiche) che non possono non indurre nello spettatore considerazioni su tematiche “scomode”, superando alcuni “tabù” mediatici. Ma queste poche righe non vogliono essere una recensione né, tantomeno, un saggio sociologico; semmai una riflessione di carattere, diciamo così, metagiuridico. Orbene, prima ho detto che la traduzione italiana è infelice; ciò perché tradisce l’intuizione (brillante) su cui si fonda la trama costruita – lo ripeto: molto abilmente – dagli autori. L’idea-chiave della sceneggiatura si evince in modo molto più chiaro dal titolo originale: “How to Get Away with Murder” ovvero, letteralmente, “come farla franca con un omicidio”. Un titolo che è ben più significativo della sua traduzione giacché sottende una critica ad un modo di concepire il diritto che, lungi dal valorizzare il rispetto di regole e procedure formali e uniformi, a garanzia di un trattamento obiettivo e perciò, auspicabilmente, uguale per tutti, eleva elementi narrativi a strumenti attraverso i quali persuadere il pubblico, ossia i giurati, di (una) verità. E proprio qui sta il problema, la contraddizione: la convinzione che dalla persuasione oratoria sulla rilevanza di alcuni elementi possa scaturire una pronuncia incontrovertibile, assurgendo così il processo a luogo per la definizione del “giusto” in senso etico-morale; un’idea che,  muovendo in astratto da premesse giusnaturalistiche, finisce in concreto per accettare il rischio della “legge del più forte” o, più realisticamente, del più ricco e/o del più credibile. Da questa presa di coscienza scaturisce la critica che, in controluce, permea, come una sorta di fil-rouge, gli episodi da cui emergono, in ultima analisi, i limiti di un sistema in cui tra molteplici ricostruzioni può prevalere, alla fine, quella più convincente, cioè più verosimile in base all’esposizione dei fatti. Lo iato rispetto ad altri sistemi, fedeli alla tradizione romanistica – come il nostro, che pure spesso è criticato per l’elevato formalismo (che, si badi, non va confuso con taluni eccessi “bizantini” i quali, senza dubbio, andrebbero corretti) – è evidente. Tuttavia, confrontando i modelli, si può ancora trarre un motivo di fiducia verso un tipo di processo inteso come rito, avendo esso il pregio di evitare l’illusione che sia possibile stabilire assiologicamente il giusto e l’ingiusto oppure il vero e il faso. Concetti “ideali” che non possono che essere relativizzati nel contesto di un processo ove i protagonisti principali sono sì dei fatti, ma così come ricostruiti e mediati soggettivamente dai diversi attori. Da ciò l’importanza di procedure, norme e regole obiettive. E, prima ancora, di buon senso.

Ciò significa che regole e garanzie sono incompatibili con un’azione efficace di ricerca della verità? Io non credo. Nessuno vuole davvero giustizia? E, in una prospettiva più ampia, si può dare e soprattutto ottenere giustizia? Sono domande cui non è possibile fornire una risposta nel breve spazio di una conversazione come la nostra. Fra l’altro una risposta condivisa implicherebbe un consenso, in realtà inesistente, sul significato del concetto di giustizia, che di volta in volta è stato equiparato a quello di legalità, di imparzialità, di uguaglianza, formale o sostanziale e così via. Certo però è  che, fra lo scetticismo radicale di chi considera utopistica e ipocrita la stessa aspirazione alla giustizia e i fanatismi più o meno mascherati in cui si celano nuove versioni della legge del taglione, esiste uno spazio delle regole, delle garanzie e dei diritti, […] è in questo spazio, lo spazio dei giuristi, che è possibile e lecito – con fatica, ma al riparo dall’arbitrio e della prevaricazione – cercare di ricostruire verità, accertare responsabilità e infine dispensare punizioni. Con senso del limite e accettando l’idea che in molti casi un colpevole sarà assolto e che questo è il prezzo da pagare per un sistema in cui sarà difficile (ma non impossibile) che un innocente venga condannato. Ognuno sarà libero di chiamare come meglio crede i risultati di questo sforzo. Anche giustizia, naturalmente.

Gianrico Carofiglio, La regola dell’equilibrio.

Buona lettura.

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hungry hearts

In tempi in cui il macromondo in cui viviamo si avvilluppa nel pasticcio che ha come ingredienti crisi economica, instabilità politica e ipertensione militare (tout se tient) senza che i cuochi si rendano conto che le dosi sono ormai ben oltre il “quanto basta”, non resta a volte che rifugiarsi a  fare “decompressione” nel proprio personale micromondo di persone e affetti. Un “mondo piccolo” che, seppur scosso nelle proprie certezze per i motivi di cui sopra, riesce ancora ad essere un atollo di serenità, irrinunciabile. E la diversità tra i due “mondi” è ancora più marcata in termini di velocità: tanto sfrenato il primo (in più è assai dubbia l’abilità del macchinista) quanto calmo e rasserenante/rassicurante il secondo che, col suo ritmo ancora umano, ci consente ogni tanto gradite deviazioni, riportandoci volti da cui il macromondo, correndo come suo solito all’impazzata, ci aveva fatto allontanare, inseguendo ognuno la propria, imprevedibile traiettoria. Eppure (r)esistono “soste ancora umane” in cui ritrovarci e ristorarci, dei ricordi passati e delle speranze future, scoprendoci ancora una volta, pur tanto cambiati, così simili – come al tempo in cui l’orizzonte comune non spaziava molto oltre quello, panoramico, della finestra dell’aula affacciata sul torrente della piccola città.

Il mondo esiste… Uno stupore arresta
il cuore che ai vaganti incubi cede,
messaggeri del vespero: e non crede
che gli uomini affamati hanno una festa.

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