Le regole del diritto perfetto

Il titolo è, naturalmente, una provocazione. Un gioco di parole che trae spunto dalla traduzione – infelice – della nuova e avvincente serie made in USA appena sbarcata sulle antenne (satellitari) nostrane col titolo di “le regole del delitto perfetto”, un legal thriller che mira a svelare, al netto di una certa dose (inevitabile) di enfasi drammaturgica, alcuni meccanismi del sistema giudiziario statunitense che, soprattutto in ambito penale, appare caratterizzato, per così dire, da una placida acquiescenza verso i mezzi liberamente usati dalle parti per perseguire i propri fini. Insomma, un bel format che rieccheggia, in un diverso ambito, gli ingredienti che già fanno del magistrale “House of cards” un appassionante thriller politico. Il giudizio è, dunque, decisamente positivo e credo debba essere sottolineata la scelta di tratteggiare situazioni (realistiche) che non possono non indurre nello spettatore considerazioni su tematiche “scomode”, superando alcuni “tabù” mediatici. Ma queste poche righe non vogliono essere una recensione né, tantomeno, un saggio sociologico; semmai una riflessione di carattere, diciamo così, metagiuridico. Orbene, prima ho detto che la traduzione italiana è infelice; ciò perché tradisce l’intuizione (brillante) su cui si fonda la trama costruita – lo ripeto: molto abilmente – dagli autori. L’idea-chiave della sceneggiatura si evince in modo molto più chiaro dal titolo originale: “How to Get Away with Murder” ovvero, letteralmente, “come farla franca con un omicidio”. Un titolo che è ben più significativo della sua traduzione giacché sottende una critica ad un modo di concepire il diritto che, lungi dal valorizzare il rispetto di regole e procedure formali e uniformi, a garanzia di un trattamento obiettivo e perciò, auspicabilmente, uguale per tutti, eleva elementi narrativi a strumenti attraverso i quali persuadere il pubblico, ossia i giurati, di (una) verità. E proprio qui sta il problema, la contraddizione: la convinzione che dalla persuasione oratoria sulla rilevanza di alcuni elementi possa scaturire una pronuncia incontrovertibile, assurgendo così il processo a luogo per la definizione del “giusto” in senso etico-morale; un’idea che,  muovendo in astratto da premesse giusnaturalistiche, finisce in concreto per accettare il rischio della “legge del più forte” o, più realisticamente, del più ricco e/o del più credibile. Da questa presa di coscienza scaturisce la critica che, in controluce, permea, come una sorta di fil-rouge, gli episodi da cui emergono, in ultima analisi, i limiti di un sistema in cui tra molteplici ricostruzioni può prevalere, alla fine, quella più convincente, cioè più verosimile in base all’esposizione dei fatti. Lo iato rispetto ad altri sistemi, fedeli alla tradizione romanistica – come il nostro, che pure spesso è criticato per l’elevato formalismo (che, si badi, non va confuso con taluni eccessi “bizantini” i quali, senza dubbio, andrebbero corretti) – è evidente. Tuttavia, confrontando i modelli, si può ancora trarre un motivo di fiducia verso un tipo di processo inteso come rito, avendo esso il pregio di evitare l’illusione che sia possibile stabilire assiologicamente il giusto e l’ingiusto oppure il vero e il faso. Concetti “ideali” che non possono che essere relativizzati nel contesto di un processo ove i protagonisti principali sono sì dei fatti, ma così come ricostruiti e mediati soggettivamente dai diversi attori. Da ciò l’importanza di procedure, norme e regole obiettive. E, prima ancora, di buon senso.

Ciò significa che regole e garanzie sono incompatibili con un’azione efficace di ricerca della verità? Io non credo. Nessuno vuole davvero giustizia? E, in una prospettiva più ampia, si può dare e soprattutto ottenere giustizia? Sono domande cui non è possibile fornire una risposta nel breve spazio di una conversazione come la nostra. Fra l’altro una risposta condivisa implicherebbe un consenso, in realtà inesistente, sul significato del concetto di giustizia, che di volta in volta è stato equiparato a quello di legalità, di imparzialità, di uguaglianza, formale o sostanziale e così via. Certo però è  che, fra lo scetticismo radicale di chi considera utopistica e ipocrita la stessa aspirazione alla giustizia e i fanatismi più o meno mascherati in cui si celano nuove versioni della legge del taglione, esiste uno spazio delle regole, delle garanzie e dei diritti, […] è in questo spazio, lo spazio dei giuristi, che è possibile e lecito – con fatica, ma al riparo dall’arbitrio e della prevaricazione – cercare di ricostruire verità, accertare responsabilità e infine dispensare punizioni. Con senso del limite e accettando l’idea che in molti casi un colpevole sarà assolto e che questo è il prezzo da pagare per un sistema in cui sarà difficile (ma non impossibile) che un innocente venga condannato. Ognuno sarà libero di chiamare come meglio crede i risultati di questo sforzo. Anche giustizia, naturalmente.

Gianrico Carofiglio, La regola dell’equilibrio.

Buona lettura.

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