il tempo della giustizia

La comunicazione politica contemporanea ha coniato, tra i tanti neologismi “ad effetto”, quello famoso di “giustizia ad orologeria”, un’espressione che da subito è diventata uno degli slogan del berlusconismo, peraltro non particolarmente azzeccato per il fine che il centrodestra con esso intendeva perseguire vale a dire una critica alla pretesa “persecuzione giudiziaria”. Anzi, quella frase semmai evoca esattamente l’opposto, cioè l’idea che la giustizia per essere tale non possa che operare con la massima ponderazione, affrontando i singoli aspetti fin nei minimi dettagli, modus operandi tipico di chi padroneggia l’arte di costruire o riparare orologi.

Tralasciando ulteriori note sulla sua origine “polemica”, il motto può tuttavia prestarsi ad una più utile riflessione, quella sul rapporto tra tempo e giustizia, “poli” la cui tensione è da tempo evidente in tema di riforma delle norme sulla prescrizione. Mal si concilia infatti il processo penale, che per sua natura mira a difendere interessi pubblici e perciò determina in itinere un notevole dispendio di risorse umane ed economiche a carico della collettività, con la possibilità che esso, una volta istruito, possa finire in nulla, o addirittura iniziare “già morto”, come da ultimo ha avuto modo di esprimersi la Cassazione riguardo al processo torinese sul caso Eternit. E così per i tanti familiari delle vittime, oltre al danno, tocca ora patire pure la beffa.

Eppure, da un punto di vista  tecnico, non si possono muovere critiche ai giudici torinesi, né tantomeno alla Suprema Corte ché, “in punta di diritto”, la sentenza risulta ineccepibile ovvero formalmente corretta; ed è bene che le procedure e le regole, finché in vigore, siano applicate e rispettate. Tuttavia, nella sostanza, essa appare (ed è) una pronuncia che, senza tema di smentita, mi sento di definire “ingiustamente giusta”. E siccome le norme le detta il legislatore, è a quest’ultimo che invece va addossata la “colpa” di questo incredibile esito; responsabilità della politica che ha radice nella negligente inerzia che essa ha dimostrato nell’intervenire a correggere le storture, stranote anche ai non “addetti ai lavori”, della raffazzonata e ripudiata dal suo stesso relatore legge “(ex) Cirielli”. Orbene, ora che è ben viva nell’opinione pubblica l’impressione di quali effetti aberranti essa sia capace, è tempo di procedere ad una sua radicale riforma (accompagnata, magari, dall’introduzione nell’ordinamento di una normativa penale ad hoc per i reati ambientali) che miri in primo luogo ad un rovesciamento della logica su cui si regge oggi l’istituto della prescrizione; calcolando la decorrenza del termine non più a favore del reo (computando il “dies a quo” dalla commissione dell’illecito) bensì a favore della parte lesa (computando il “dies a quo” dalla scoperta e relativo perseguimento del fatto di reato). E la parte lesa, in ultima analisi, è l’intera collettività perchè siamo noi tutti, più o meno direttamente, a pagare il prezzo – salato – dei disastri ecologici il cui tragico bilancio umano (talora persino “messo in conto” sub specie di accettazione dolosa del rischio) è l’esito di scelte ciniche e avare dei “soliti noti”: grandi gruppi aziendali, impersonali e multinazionali, senza legami con il territorio da cui traggono profitto. E l’Eternit, purtroppo, non è che uno degli esempi, basti solo pensare in proposito alle conseguenze dell’inquinamento prodotto dagli stabilimenti ILVA in diverse zone del Paese. Certo, la sanzione penale non “ripara” lo scempio ma può e deve senz’altro agire come deterrente per far sì che il diritto penale esplichi appieno la propria fondamentale funzione generalpreventiva, affinché simili tragedie, ancorché “silenziose”, non abbiano a ripetersi o rimangano, ancora una volta, impunite. E’ questo un risarcimento morale che dobbiamo alle migliaia di morti “in nome del profitto”, avvelenati, giorno dopo giorno, dal loro stesso lavoro, a Casale Monferrato come a Rubiera, a Taranto e nei tanti altri centri, piccoli e grandi, dove troppo a lungo chi aveva il compito di impedire che ciò si verificasse ha prima ignorato e infine negato le proprie responsabilità. Accertate in sede storica ma appunto, “cadute in prescrizione”. Colpe destinate ad un oblìo che, pur calando secondo diritto, è moralmente inaccettabile.

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